La violenza di genere: l’approccio clinico

La violenza di genere: l’approccio clinico

Dott.ssa Alessia Salvemme - GdL Pari Oppurtunità

L’approccio alla violenza di genere deve essere politico, culturale e clinico ed è auspicabile che le persone che se ne occupano nei diversi ambiti collaborino tra loro.

Da un punto di vista politico/culturale l’uomo che agisce violenza su una donna deve essere ritenuto sempre colpevole. Da un punto di vista clinico è bene che entrambi, vittima e aggressore, facciano separatamente un percorso psicoterapeutico perché la violenza agita e subita incide profondamente sulla psiche. Spesso, però, questi due ambiti sono però stati confusi e per questo sentiamo molte persone dire che “per esserci un uomo maltrattante ci deve essere una donna che si fa maltrattare” cadendo così nell’errore di mettere le due persone, vittima e aggressore, sullo stesso piano e dimenticando che invece il maltrattante compie un reato e quindi va punito dalla Legge. Un reato, inoltre, che spesso deriva dal fatto che la donna si rifiuta di comportarsi secondo le aspettative che l’uomo ha su quella donna mettendo le due persone sullo stesso piano. Non è così perché il maltrattante compie un reato e quindi va punito dalla legge. Ricordiamo ancora una volta che la parola femminicidio non indica il sesso della persona morta ma il motivo per cui è stata uccisa. Una donna uccisa durante una rapina non è un femminicidio. Sono femminicidi le donne uccise perché si sono rifiutate di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne.

L’ambito clinico

Per quanto riguarda l’ambito clinico, in questo articolo si parlerà delle donne perché rispetto alla violenza di genere, chi scrive ha molta più esperienza con le donne maltrattate che con gli uomini maltrattanti e comunque quando chi scrive ha seguito in terapia uomini violenti la comprensione profonda delle ragioni del loro agire era sempre accompagnata dal fatto che la violenza non può mai essere giustificata e che è un reato.

Quando una donna vittima di violenza di genere chiede aiuto spesso viene da anni di maltrattamenti e di abusi. La richiesta nasce o perché la donna inizia ad aver paura per i/le propri/e figli/e o perché gli episodi diventano sempre più frequenti e violenti e inizia a temere per la propria vita. Le psicoterapeute o le operatrici dei CAV si trovano quindi di fronte una persona che presumibilmente vive da anni situazioni caratterizzate da violenza e spesso se si risale all’infanzia si rintracciano episodi se non di violenza, di sottomissione. Sicuramente il chiedere aiuto è un passo molto importante perché forse per la prima volta può sperimentare che non è sola, che se chiede aiuto qualcuno le crede, può iniziare ad aver fiducia che qualcosa possa cambiare.

Portare alla luce
Il primo obiettivo (a parte quello di mettere in sicurezza la donna, se lo richiede, attraverso i Centri Antiviolenza) è rendere visibile, mettere in luce ciò che è oscuro, indicibile forse per vergogna, oppure per proteggere il partner o forse per paura di non essere creduta o ancora per mancanza di consapevolezza rispetto al fatto che i suoi sintomi psicofisici siano causati dallo stress del vivere una situazione violenta.
La responsabilità della violenza
Quali sono gli atteggiamenti che noi operatrici e professioniste dobbiamo avere nei confronti della donna maltrattata? Innanzitutto una posizione netta di sostegno alla donna e lo si attua esplicitando in modo chiaro la responsabilità di chi ha agito violenza perché la violenza non può mai essere giustificata.
Le nostre emozioni
Dobbiamo inoltre entrare in contatto con le nostre emozioni che se riconosciute possono essere un prezioso aiuto nel percorso con le donne. Se ignorate queste emozioni possono invece ostacolarlo. Quindi fondamentale è la supervisione. Quali sono queste emozioni?

In alcune operatrici e operatori la donna maltrattata suscita tenerezza e quindi nasce subito la voglia di prendere in mano la situazione, di salvarla dall’orco cattivo, in altre suscita rabbia e quindi il pensiero ricorrente è “ma perché non te ne vai, perché ti fai trattare così” in altre c’è la paura per le sorti della donna. Questa paura fa lavorare spesso in una condizione di emergenza e in questo caso spesso ci si dimentica di lei, dei suoi tempi e ci si ritrova a proporre soluzioni non condivise per poi sentirsi dire “non sono pronta”.

Si tratta di emozioni che naturalmente riguardano la vita di noi operatrici e operatori e il nostro rapporto passato o presente con tematiche quali la violenza, la sottomissione, la rabbia, la dipendenza. È fondamentale riconoscere che queste tematiche fanno parte della vita di tutte e tutti, indipendentemente se siamo sedute/i da un lato o dall’altro della scrivania. Questo ci permette quindi di distinguere le nostre emozioni da quelle delle pazienti e ci permette di ascoltare davvero le loro storie e forse riuscire ad entrare nel loro inferno senza rimanerci intrappolate/i, senza rischiare di oscillare tra l’onnipotenza di salvarle e l’impotenza rispetto ad una sofferenza che sentiamo troppo vicina e quindi ingestibile.

Una relazione costruttiva
Dobbiamo quindi costruire con la donna una relazione in cui il/la professionista senta quale è la sua parte di potere e di responsabilità e riconosca il potere e la responsabilità della donna così da non rischiare di ritrovarsi nell’ennesimo rapporto di dipendenza.
Il progetto terapeutico
Per quanto ogni storia è diversa ed ogni relazioni terapeutica è unica, possiamo però “riassumere” il progetto terapeutico con le donne in quattro punti:
  • Costruire il rapporto. Per entrare veramente in relazione è indispensabile dare valore a ciò che le donne portano in terapia e ai loro vissuti.
  • Elaborare il passato. Le donne per potersi differenziare dal mito familiare che portano dentro di loro devono poterlo conoscere e poterci accedere.
  • Rassicurare e legittimare. La donna va rassicurata che non è pazza e che i vissuti di confusione e di inadeguatezza, senso di colpa, insicurezza, rabbia sono normali in queste situazioni. Questi vissuti vanno legittimati: se ne può parlare, anzi se ne deve parlare. Dare voce alle emozioni è il primo passo per accettarle e ottenere informazioni che rompano il codice di interpretazione di chi agisce l’abuso e la violenza. Per comprendere meglio questo concetto pensiamo ai bambini maltrattati e abusati che portano dentro di loro la vergogna di sentirsi colpevoli di quello che hanno vissuto. Questo è il codice di interpretazione dell’adulto abusante che li ha fatti sentire colpevoli e conniventi. I bambini maltrattati sentono di aver sedotto loro l’adulto. E allora è importante accedere a questa vergogna per poter dire loro che come tutti i bambini e le bambine, loro cercavano solo affetto, che non hanno nessuna responsabilità e nessuna colpa. Sono gli adulti i soli responsabili della modalità con la quale rispondono alle richieste di affetto dei bambini. Anche per quanto riguarda le donne vittime di violenza di genere è importante che si metta in discussone il codice di interpretazione dei maltrattanti che è il seguente “ ti meriti le botte, gli insulti, gli sputi, di non avere un soldo in tasca, sei inadeguata, sei insignificante, non sai fare l’amore, sei una puttana, non sai gestirti”. È fondamentale quindi ribadire e lavorare sul fatto che l’unica responsabilità è di chi agisce la violenza e cioè del maltrattante e che nessuna donna deve sentirsi in colpa se è stata maltrattata fisicamente e/o psicologicamente.
  • Riparare il vissuto e visualizzare il presente. Riparare il trauma significa operare un cambiamento affinchè l’abuso sessuale o la violenza non siano l’unica identità possibile di chi ne è vittima. Accogliere momenti di lutto rispetto all’infanzia, alla famiglia, al partner scelto diviene un modo per chiudere la violenza nel passato e liberare energie e risorse per occuparsi del presente e del futuro. Per le donne che hanno subito abusi durante l’infanzia significa ad esempio accettare di non aver avuto l’infanzia desiderata, di non aver avuto genitori protettivi. Occuparsi del presente vuol dire, anche, che quando alcune di queste donne decidono di lasciare il partner violento devono fare i conti con la loro parte aggressiva e la loro parte di discontrollo che agivano attraverso di lui. Questo vuol dire anche confrontarsi con alcune parti nuove o sconosciute ( le parti “scisse”) che portano la donna, a volte, a non riconoscersi o a doversi conoscere nuovamente: possiamo dire, in un’ottica femminista, che la terapia dovrebbe portare all’integrazione delle parti aggressive e passive della donna, superando la cultura maschilista che prevede una vittima ed un carnefice. Occuparsi del presente vuol dire anche stare in contatto con un grande vuoto interiore che, però, può essere colmato a partire dalle risorse di cui ciascuna donna dispone, senza dipendere solo dagli altri (compagni, famiglia, amici). Il futuro in situazioni tanto delicate si costruisce dandosi degli obiettivi minimali.
Bibliografia
“Maltrattamento e violenza sulle donne” Elvira Reale ed Franco Angeli
“Libere di scegliere” Cooperativa Sociale Cerchi d’Acqua O.N.L.U.S. ed Franco Angeli
“Sulla liberazione della donna” Simone de Beauvoir
“Secondo sesso” Simone de Beauvoir
“La bella e la bestia. Il significato della violenza relazionale” Monica Micheli e Ester Di Rienzo
“Sottomesse. La violenza sulle donne nella coppia” Marie France Hirigoyen
“Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile” a cura di Piccone, Stella, Saraceno ed. Il Mulino
“Violenza sessuale e di genere” a cura di Francesca Asta AIDOS FPFE Womens Right Foundation

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